catalogo P. Monteverde
La Salvia, Padovani, Schiavon

Alla fine degli anni Cinquanta Piero Monteverde acquista un rudere alla Valle Benedetta, sulle colline livornesi alle pendici del Poggio Lecceta. Trasformato in una confortevole casa di campagna ha inizio la consuetudine del pranzo domenicale. Con il figlio Umberto, Monteverde riunisce intorno a sé amici e personalità del luogo, come il parroco Don Primo Bracaloni, poi sostituito da Don Renzo Vignocchi, Armando Magagnini, che rende possibile i pranzi ricoprendo il ruolo di capocuoco, il comandante nonché insegnante Eugenio Battagello, e il collezionista Alberto Micheli, poi nominato assaggiatore capo. Già dal 1970 si aggiungono Giovanni March e l'amico Voltolino Fontani, l'anno successivo anche l'ottantenne Bruno Miniati, e nel 1972 si aggrega Dorino Dori. Pare che proprio in conseguenza del numero dei commensali sia venuto in mente ai partecipanti di chiamare il gruppo cenacolo: “amici di tutte le tendenze e di tutte le età, ricchi e poveri, importanti e non importanti, simpatici e antipatici, religiosi e non religiosi, artisti e non artisti, lavativi e non lavativi, di destra e di sinistra e anche di centro”. In questi anni Monteverde inizia la carriera di artista, sperimentando i collages, le geometrie, le linee sulle superfici di colore. Il suo stile risulta fin dagli inizi ben delineato, molto distante dalla pittura, ancora legata al figurativo, degli amici della Valle. La sua è una pittura autonoma e qualitativamente subito alta: sono, queste opere dipinte ad acrilico (al quale Monteverde perviene subitaneamente dopo sporadici tentativi ad olio), superfici di medio formato, perlopiù tele, masoniti e lamine d’alluminio, concepite in senso strettamente bidimensionale, e sulle quali campeggiano sagome rigorosamente piane, più sovente geometrizzanti piuttosto che geometriche, finite e limpidissime, che posseggono un senso di intangibile perfezione e d’intatta purezza. Essenziali, nitide, nude ma non scabre, liberate sapientemente d’ogni gabbia disegnativa – come pochi artisti astratti hanno saputo realizzare – coi colori a sfiorarsi l’uno l’altro, in esse le forme si giustappongono e si sovrappongono, si incontrano e si incastrano, sospese, concatenate, in bilico tra l’abbraccio e lo scontro, tra la danza ed il conflitto; calibrate sempre attentamente alla ricerca di un ritmo e di un ordine interno alla composizione. Un senso dell’equilibrio, della misura e della proporzione, a tratti addirittura rinascimentale, sembra caratterizzarle: non la rigidezza strutturale di Mondrian, o l’intangibile solennità delle formule suprematiste di Malevic; ma sono semmai il razionalismo costruttivista di Moholy Nagy e la spazialità di Licini che possono averle marginalmente ispirate. Galleria d'Arte Goldoni, Livorno Catalogo a cura di Valentina La Salvia, Massimo Padovani, Gianni Schiavon

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